“You You Faranji” è così che per le strade ci chiamano, “tu, tu straniero”, e come accade in buona parte del mondo, lo straniero è per definizione il ricco, quello che darà un birr, magari anche 10 (che per noi sono appena 50 centesimi) perchè è così che le cose vanno, si cerca di muovere alla compassione, in fin dei conti basta guardasi intorno per capirli e non farne neanche una colpa.
Quanto più appari fanranji, quanto più questo è il destino a cui vai incontro e con cui bisogna fare i conti e, ovviamente abituarsi.
Camminando per il quartiere del mio hotel, quartiere Piazza, alla ricerca di un ristorante dove fare colazione, mi imbatto in un bar sopraelevato che chiama la mia attenzione e dove decido di sedermi.
A terra erbe ed arbusti, a differenza degli altri, questo ha un tono fortemente africano, un villaggio, per come l'ho sempre immaginato pur senza averlo ancora visto, nel cuore della città.
Da lissù vedo il via vai delle strade, che ha un disordine differente da quello asiatico o latino al punto da poterlo senza problemi definire “africano”, guardo nascosta dietro un albero di banano piantato sul davanzale come noi faremmo con le ortensie.
Scelgo quel bar non solo per l'aria che si respira ma perché c’è lei, una giovane con un foulard rosso in testa che raccoglie i capelli e un lungo vestito leggero di color azzurro. E’ l’addetta al caffe, ogni bar ristorante ne ha una, ma lei è la più bella e deliziosa che ad oggi abbia incontrato ad oggi.
Il caffè etiope, bevanda famosa qui come forse solo in Italia, lo bevono tutti e ne vanno orgogliosi, non a caso a questo, separato dal bar, si dedica un angolo ben distinto e riconoscibile e una persona è dedita a farlo.
Che lo si beva a bar, a un ristorante o in un baracchino per la strada il procedimento, come il risultato è lo stesso.
Due cucchiaini di zucchero vengono versati in tazza e poi, dall’apposita “macchinetta del caffe” che altro non è una sorta di teiera di coccio nero, viene versato il caffè che se tu, turista, non mescoli da solo subito, ci pensa lei a farlo per te.
E io che il caffè lo bevo amaro, in questi momenti lascio fare per cose tradizione vorrebbe che si bevesse per non togliere il piacere di farmelo servire alla loro maniera e non strappare violentemente quell'aura mistica che ogni giorno ho il piacere di assaporare.
Nel piccolo vassoio su cui si adagia caffettiera e tazzina si accompagna anche dell’incenso che prima che il caffè venga versato inizia a bruciare. E' proprio in quel momento che un semplice caffè diventa una celebrazione quasi santa, odore di incenso misto alla polvere delle strade e il casino che proviene dalla strada che ne mentre non cessa.
Un rituale sacro a cui la mattina non posso né voglio rinunciare.
Le tazzine sul vassoio sono pronte per l’utilizzo, una a fianco all’altra. Lei timida e giovane, con gli occhi dell’innocenza, che ben si riconosce, attende in silenzio accovacciata in fronte alla postazione di lavoro, maneggiando la caffettiera facendo sempre in modo che il caffè non sia mai troppo caldo o troppo freddo.
Cercavo un posto dove fare colazione ma una volta che si abbandonano le 4 mura dell’hotel presidiato 24 ore su 24 da guardie armate e con colazione all’americana, anche il concetto di colazione diventa differente.
Il menù è scritto in amarico, non capisco nulla né riesco a distinguere un piatto dall’altro, se non injera, ma non solo. Mettendo il caso che avessi voluto mangiare questa, il piatto avrebbe sfamato tre persone non una sola, che tra l’altro di fame non ne ha neanche tanta.
Nel mentre attorno a me gruppi di etiopi mangiano, chiacchierano, ridono, è interessante come il senso di comunità africana la si riscontri nell’immediato a tavola.
Un grande vassoio da cui ognuno attinge con le proprie mani il proprio pezzetto di cibo e talmente tanto mangiare che vuole essere condiviso con qualcun'altro.
Adagiati su un pane spugnoso, injera per l'appunto, tanti diversi condimenti (alcuni molto piccanti) che ognuno, senza ingordigia ma con placida tranquillità, porta alla bocca masticando lentamente e continuando ad intrattenere i commensali.
E’ tutto così lontano dai nostri bars e ristoranti con free wifi dove la condivisione non avviene più, neanche nell’interazione con gli altri pensando invece a chi sta mille miglia lontano da noi.
Si è così vicini eppure sempre più lontani, qui invece il gruppo fa la forza e quel senso di comunione si scova ad ogni angolo ed in ogni attività.
Odore di incenso misto alla polvere, un allegro signore dalla pelle nera come la pece e la camicia arancione brillante e gli occhialini tondi, un disordine colorato e il sottofondo di musica e, a volte, You You Faranji!
Il buongiorno che Addis Ababa mi ha dato nei primi 4 giorni di permanenza è speziato e dolce allo stesso tempo, difficile ancora da decifrare ma decisamente una introduzione interessante a una terra e ad un popolo generoso ed abbondante, proprio come i suoi piatti.
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Eccomi di nuovo...
E di nuovo mi trovo in quel bar anch'io...
Forse, in quanto viaggiatore visionario, riesco facilmente ad immedesimarmi...
Mi emoziono e voglio partire.... ma cavolo... son già in viaggio... no fa nulla, il mio viaggiare si incrocia col tuo e ne esce una diabolicamente dolce miscela irresistibile.... voglia di tornare, solo dopo aver continuato ad andare... andare ... andare... ... il Viaggio Continua...
corro alla terza parte....