Un viaggio in moto in Vietnam, cominciato in verità prima che in questo Paese vi si arrivasse e ancora prima di comprare il due ruote.
Il racconto di viaggio di Matteo continua (clicca qui per leggere la prima parte), un flashback sul chi è quella ragazza che ha re-incontrato. E per farlo, ci porta a qualche mese prima in Nepal.
E nuovamente, i personaggi di cui si circonda, i dettagli della guest house e dei ristoranti diventano punti focali di interesse e di ricordi, materiale per stendere il racconto che narra un luogo pur senza mai descrivere approfonditamente il contesto, se non con cenni brevi ed esplicativi, lasciando immaginare ed intendere dove si è e facendoci utilizzare la fantasia, ed i Nepal è li, con Appy, Sweet Lemon e Laina.
Sono le persone che si incontrano a fare il viaggio, e non il cosa si vede.
*******************************************************
Strinsi la mano sulla ringhiera e presi a pensare.
Appena una settimana prima a quella stessa ora della mattina, stavo affrontando uno dei tratti più duri di quello che è il percorso per raggiungere il campo base dell’Annapurna. Si tratta in soldoni di una lunga serpentina di scaloni la cui ripidità rasenta spesso il verticale, che si snoda su per il crinale di una montagna la cui forma, posso giurarlo, sembrava ricalcare quella di una colossale onda pronta a sopraffarmi. Ed io ero lì, a spingere il palmo della mano contro il mio stesso ginocchio per guadagnare un gradone, e poi un altro e un altro ancora. Non c’era fatica, non c’era il voluminoso zaino, non c’erano le scarpe che cominciavano ad averne abbastanza e non c’era la maglietta intrisa di sudore. C’era solo quello che avrei potuto vedere dalla sommità e un minimo pensiero a quello che avrei potuto vedere il giorno dopo. Nient’altro.
E ora invece, pensai, cosa c’è?
Dietro di me c’era una rampa di scale (per intenderci, non più di una decina) che mi ero guadagnato con gemiti e silenziose imprecazioni, ce n’era un’altra di fronte, c’era il mio zaino che sembrava aver gettato l’ancora e c’erano le mie ginocchia, o per meglio dire ciò che ne rimaneva, che ad ogni passo emettevano un suono simile a quello di un pestone su dei rametti secchi.
Ah sì, oltre a questo c’era anche una ragazza, di cui mi accorsi soltanto quando ci incrociammo. Indossava dei jeans aderenti e una canotta bianca che metteva in risalto una linea snella e minuta, mentre il suo viso era completamente coperto da un covone di capelli castani con del biondo alle punte.
Quasi completamente in effetti, poiché riuscii a intravedere degli occhi di un verde vivo.
Ad ogni modo, non sono né il classico animale sociale che sente il bisogno di salutare chiunque né un navigato Don Giovanni, ma furono piuttosto le silenziose scarpinate solitarie dei giorni precedenti a spingermi fuori il saluto di bocca.
-Ciao-
Nessuna risposta e nessun cenno, lei si limitò con noncuranza a proseguire nello scendere la rampa di scale.
Che non mi avesse sentito era fuori discussione, quindi conclusi che si dovesse trattare della classica sindrome della ragazza piacente, quella cui tutti i ragazzi del mondo finiscono inevitabilmente per fare quella corte di cui lei è ormai così tediata, e dunque anche un semplice “ciao” assume a suo avviso le sembianze di un abbordaggio in piena regola.
In tutta sincerità, poco m’importò.
Mi trascinai su per gli ultimi scalini e raggiunsi finalmente il dormitorio, che distribuito su tutto il piano era segmentato in due stanze giallognole aventi il rispettivo bagno. La moquette bordò odorava di polvere e vernice, e mi sembrò dunque piuttosto pretenzioso il cartello affisso all’architrave della porta d’ingresso “togliersi le scarpe, mantenete l’ambiente pulito”. Tuttavia, visto il mio ormai elastico concetto di pulizia, decisi di non fare lo schizzinoso e procedere scalzo.
Appena entrato, ricevetti un fugace quanto disinteressato sguardo da un ragazzo, l’unico presente, che stava oziando disteso nel letto a gambe accavallate. Adagiai il mio zaino a terra e mi rivolsi a lui.
-Scusami sai per caso quale di questi letti è libero?-
Dovetti attendere alcuni irritanti secondi per una risposta.
-Il mio no-
E dovetti mordermi la lingua per altrettanti irritanti secondi.
Non era davvero il caso di essere scontrosi nel primo giorno d’ostello, soprattutto perché contavo di spenderci il tempo d’attesa del visto indiano.
Scelsi un letto a caso e presi a disfare il mio bagaglio, e nel frattempo mi ritrovai anche a mandargli delle occhiate. Le sue fattezze sembravano indù, con occhi e capelli di un nero corvino e un incarnato sui toni del marrone, ma il suo inglese mi era parso fin troppo buono, e già una volta mi ero trovato a confondere un fiero purosangue britannico con un indiano.
Per inciso, il tizio in questione non la prese per niente bene.
-Inglese?- Chiesi.
-Cosa te lo fa pensare?-
-Direi gli occhi azzurri, ma vada per l’umorismo-
Si prese alcuni secondi per rispondere, secondi che impiegò anche per alzarsi dal letto e mettersi in piedi. Non era né basso né alto, e visti i suoi logori jeans chiari arrotolati fin sopra le caviglie soltanto un lieve accenno di pancia lo differenziava da una moderna rivisitazione Bollywoodiana di Oliver Twist.
-No, indiano. Tu? Spagnolo?-
-Italiano-
-Senza offesa, ma la odio la fottuta Italia-
E sorrise.
Ammaliante, accattivante, scaltro, profittatore: potrei riempire due intere pagine con aggettivi su aggettivi eppure non riuscirei comunque a cogliere in pieno ciò che quel suo modo di sorridere è. Diciamo semplicemente che sfoderando quei trentadue (o sessantaquattro, o duecentoventi, chi può dirlo) scintillanti denti avrebbe potuto uccidervi il cane e ottenere da voi un invito a cena nello stesso pomeriggio.
-E per quale motivo?-
-Perché fate un gioco difensivista, è davvero troppo noioso-
Stava parlando di calcio? Sì, stava parlando di calcio.
Che diavolo di senso aveva parlare di calcio in quel frangente?
Ad ogni modo, non mi diede il tempo di controbattere che già si stava avviando verso la porta.
-Ci si vede- mi disse.
Rimasi interdetto a fissare l’uscio con le mani ancora affondate nei miei vestiti.
Una frigida e un idiota, quell’ostello si stava davvero dimostrando una scelta azzeccata.
Dormii un’ora o poco più, e spesi poi dell’altro tempo ascoltando musica. Certo, ero nell’esotica Kathmandu, ma cominciavo a realizzare che spesse volte il semplice oziare ha un’attrattiva tale da sovrastare completamente quella dello scoprire templi, quartieri caratteristici e quant’altro.
Le ore centrali della giornata mi stavano intorbidendo i sensi con la loro afa, e starsene in quel letto ormai madido del mio stesso sudore era tutt’altro che piacevole, ma “resistetti” stoicamente. Del resto avevo già infranto ciò che mi ero ripromesso un paio di giorni prima, ovvero che non avrei salito scale, scalini, gradoni, o niente che si fosse levato a più di dieci centimetri dal suolo per almeno una settimana, per cui quel giorno mi ero incaponito a muovermi solamente per lo stretto necessario.
Ma il pranzo era ovviamente lo stretto necessario.
Raggiunsi la lobby e trovai entrambi, la ragazza schiva e l’indiano insolente, seduti su un divano di pelle nera. Non so se l’idea di lui fosse quella di montargli in braccio, ma il suo fare era talmente incalzante dall’aver costretto lei a portare una spalla fuori dallo schienale, in un a quanto sembrava vano tentativo d’evasione.
E ditemi, qual è la cosa più odiosa che si possa fare a un cascamorto in azione?
Intromettersi, naturalmente.
-Ragazzi, sapete consigliarmi un buon posto per pranzare?- Chiesi con innocenza.
Il sorriso che lei mi rivolse partì dagli occhi, leggermente cadenti ma comunque gradevoli, che tirarono poi su anche un angolo delle labbra. La spontaneità di quel gesto fece traballare l’opinione non propriamente positiva che mi ero fatto di lei.
Cosa che non accadde invece con lui: idiota era e idiota restava.
Fu la ragazza a rispondermi.
-Noi abbiamo mangiato in un piccolo localino indiano qui vicino, il cibo non è male ed è anche molto economico-
Aveva un forte accento ispanico che risultava piuttosto divertente.
Parentesi sul “piccolo localino indiano” in cui capitai giusto un paio di giorni più tardi: Trattasi di uno scalcinato garage adibito a mensa, i cui gestori all’ingresso hanno ben pensato di applicare un singolare forno a legna cilindrico che, sprovvisto di ogni qualsivoglia impianto di ventilazione, provvede a mantenere una piacevolissima temperatura interna di quaranta gradi. Cibo accettabile comunque, devo riconoscerlo.
-Lascia stare Laina, è italiano, prenderà a criticare tutto il mangiare- Intervenne lui con fare beffardo. Lo ignorai e guardai lei.
-Laina?- Chiesi.
-Si, è il suo nome, Laina-
-Veramente non è il mio nome- Precisò lei divertita.
-Oh andiamo Laina, è un bellissimo soprannome per una bellissima ragazza-
E lo disse davvero, lo disse lentamente accompagnando le parole con le mani quasi stesse recitando, con un tono di voce profondo che nella sua deviata concezione immagino dovesse essere incredibilmente seducente. Che scherzasse o meno rimane per me un mistero tuttora, fatto sta che il tutto risultò banale al punto che sia io che la ragazza, Laina per l’appunto, prendemmo a ridere.
Dopo alcuni secondi d’esitazione, si aggregò anche lui nella risata.
-Bene Laina, piacere, Matteo. Mentre tu invece saresti?-
-Appy, senza l’acca iniziale-
-Appy senza l’acca iniziale, interessante… E’ un nome comune in India oppure i tuoi genitori non ti amano fin da quando eri in fasce?-
Mi sforzai di mantenere un’espressione seriosa per dare tono alla battuta, ma realizzai immediatamente che forse il colpo inferto era un tantino eccessivo per figurare nella settima o ottava frase rivolta a uno sconosciuto. Eppure, dopo un’iniziale espressione sorpresa, la sua bocca si aprì in un sorriso.
Si, uno di quei suoi sorrisi.
-Una volta a casa dovrei chiederglielo in effetti, fottutissimo italiano!-
E ridemmo ancora tutti e tre insieme.
Il pomeriggio, quel singolare pomeriggio, trascorse così.
Non conoscevo l’età di Appy, tuttavia ora sapevo che soltanto alcuni giorni prima era fermamente convinto d’aver perso il senno. Lasciando ogni agio alle sue spalle si era ritirato in un silenzioso periodo meditativo della durata di dieci giorni: il sempliciotto, sedotto inizialmente dalla prospettiva del non dover spendere un singolo dollaro per vitto e alloggio, subì a tal punto la rigida vita monacale che, quasi a metà del suo percorso spirituale, prese a scrivere frasi sconnesse sui muri della sua cella con un ciottolo sbeccato.
Ignoravo ancora quale fosse il paese natale di Laina, ma so di quando appena arrivata nell’aeroporto di Bangkok, il suo primo giorno di viaggio, si ritrovò a stringere disperatamente quel suo zaino quasi fosse un orsacchiotto di pezza, così da fronteggiare quel crescente senso di smarrimento che, alla fine, durò soltanto un paio d’ore.
A esser schietti fatico tuttora nel ricordarmi i loro cognomi, o almeno quello impronunciabile dell’indiano, eppure quella manciata di ore con loro ebbero una risonanza tale da modificare completamente il concetto di “compagnia” che mi ero costruito per questo viaggio. Le altezzose conversazioni da viaggiatori navigati, improntate su quanto amabili siano gli abitanti del posto o di quanto importante sia assorbire i loro usi e costumi, si sono di colpo trasformate da insipide a esasperanti, e passare il tempo a burlarsi della risata isterica del receptionist presente in quell’ostello, delle orecchie incredibilmente sottili di Laina o delle mie che al contrario sono decisamente più in carne del normale, valse mille volte più di un itinerario narrativo dell’India, del Nepal, o di qualsiasi altro luogo in questa terra.
-Puoi continuare a difenderlo quanto vuoi, sempre idiota rimane-
Le parole da me appena pronunciate non avevano alcun mordente, poiché essere realmente stizziti in quella circostanza era impossibile. Da quella terrazza, di gran lunga il luogo più suggestivo dell’ostello, si aveva una prospettiva della silenziosa città notturna ai limiti del reale: l’assenza dell’illuminazione pubblica e un cielo senza luna esaltavano le intime realtà domestiche dei palazzi di fronte, e mi trovavo dunque a osservare lo scorcio di vita di una massaia intenta nello sciacquare le stoviglie nel suo piccolo cucinino.
-Ma è stata comunque una serata piacevole, no?-
Non che Laina avesse torto, ma l’avrei sicuramente apprezzata maggiormente se nel mio stomaco ci fossero stati più di sessanta miseri grammi di spaghetti.
Questo accadde poiché l’idiota, che come avrete forse intuito risponde ancora una volta al nome di Appy, si premurò di informarmi che alla nostra pianificata spaghettata a tre avrebbero partecipato cinque ulteriori persone nell’esatto momento in cui stavo buttando mezzo chilo di pasta. Non che tanta espansività sia nelle sue corde, intendiamoci, ma non poté tirarsi dietro solamente la biondina olandese conosciuta poco prima nel dormitorio poiché a suo avviso ”se sei troppo esplicito con le europee, loro prendono e scappano”.
-Fame a parte, non posso lamentarmi. Credi riuscirà a concludere qualcosa almeno?-
Con un cenno della testa indicai lui, Appy, e Iris, seduti l’uno accanto all’altra poco distanti da noi. Il corteggiamento, che per inciso andava ormai avanti da più di tre ore e mezzo, divenne particolarmente serrato da quando lei aveva deliziato i commensali con una storia che la vedeva svegliarsi il giorno precedente nella sua camera d’albergo, completamente nuda, con un uomo affianco di cui non ricordava il nome.
-Lo spero per lui, altrimenti avrebbe sprecato un’intera serata-
-Sei troppo indulgente, giusto prima di cena mi ha confidato di avere una ragazza svedese-
Lei rise. Aveva i canini leggermente sporgenti, ma si trattava di quel genere d’imperfezione che attribuisce originalità al viso senza deturparne l’armonia.
-E tu? Anche tu hai una ragazza adesso lontana?-
Ragionai sulla risposta. Circa un paio di mesi prima ebbi quella che si potrebbe definire un’istantanea di un concreto rapporto con una ragazza portoghese, ma ci lasciammo con una promessa sussurrata, un bacio e nulla più.
-Credo che se ci fosse qualcuna capace di starsene buona e zitta ad aspettare per mesi e mesi il mio ritorno, non la vorrei come ragazza-
Il suo sguardo si fece grave.
-In effetti potresti aver ragione- Disse.
-Tasto delicato?-
-Non direi-
Seguirono dei momenti di silenzio. O fingeva disinteresse per spronarmi ad approfondire, o era la bugiarda peggiore del mondo.
-Il fare misterioso ha fascino soltanto se si ha una barba, e deve anche essere lunga, quindi sii più esaustiva. Qualcuno ti aspetta… Da ovunque tu venga?-
-Sono argentina! Di Buenos Aires-
-Affascinante, assolutamente affascinante, davvero. Quindi? C’è qualcuno?-
-Soltanto un ex, niente di più, e ormai sono due anni che non stiamo insieme-
-Dal modo in cui ne parli sembra più di questo. Andiamo! Ormai ci conosciamo da ben otto ore e forse anche più, dovresti essere più aperta con me!-
Accennò un sorriso, ma l’argomento la scuoteva. Ed anche parecchio a quanto sembrava.
-Diciamo che non è mai veramente finita, anche in questi ultimi due anni abbiamo continuato a vederci, tutto qui-
-Uhm, capisco-
Scelsi di non andare oltre, l’atmosfera si stava raffreddando e dopotutto non è che la cosa mi riguardasse. A voler esser cinici, nemmeno poi che m’importasse così tanto.
Cambiai totalmente argomento.
-Dunque domani hai il volo per Bangkok. A che ora?-
-Alle due del pomeriggio. Mi rattrista molto lasciare questo posto così presto, c’è gente piacevole e interessante qui-
Ed era vero, quel posto pullulava di veri e autentici personaggi. Avevo avuto modo di conoscere Kevin, adone nordico rasente i due metri la cui bellezza era seconda soltanto al suo senso di autocompiacimento, che studiava al punto tale i suoi interventi nella conversazione da risultare alle volte più irritante che affascinante. Badate che questo è un commento fatto non da me ma da una delle ragazze presenti.
C’era Taletha, per cui non è davvero necessario spendere molte parole poiché ognuno di voi ne avrà vista una fotocopia in qualche film americano: leggermente sovrappeso, nera, temperamento dirompente e uno sconsiderato uso della parola “merda”.
Come dimenticarsi poi di Sweet Lemon, dolce quanto enigmatica ragazza cinese che decise a quanto pare sua sponte di chiamarsi in tal modo. Mi dissero che altro non era se non la traduzione del suo vero nome cinese, ma mi sono sempre rifiutato e mi rifiuto tuttora di crederlo. Su di lei si potrebbe basare un intero racconto, ma poiché questa è un’altra storia, al fine di dare la prima pennellata al ritratto del personaggio, basti sapere che era capace di un’innocenza tale dal non poter uccidere una zanzara e al contempo, come verificai alcuni giorni dopo, di pensare seriamente di cospargere Appy d’olio e dargli fuoco.
-Dev’essere frustrante avere delle costrizioni anche in questo viaggio, se ne perde un po’ il senso non credi?-
-Non posso certo raggiungerla a piedi la Tailandia, filosofo da quattro soldi!-
Accompagnava ogni battuta, per quanto priva d’ogni offesa potesse essere, col sorriso. L’incisività ne soffriva, ma in compenso era in qualche modo carino. Le sorrisi a mia volta.
-Ancora una conferma per la teoria secondo cui le ragazze carine non devono necessariamente essere spiritose… O almeno “quasi” carine, nel tuo caso-
Mi tirò un pugno sulla spalla.
-Es un boludo!-
Boludo: colorita espressione argentina che riveste mille e più significati, ma nel mio preciso caso mi è stato assicurato che ha sempre e solo denotato quello di “imbecille”.
-Bene, credo sia giunta per me l’ora di andare a letto, e ti consiglio di fare altrettanto prima che l’indiano decida di ripiegare su di te-
-Si, credo che a breve seguirò il consiglio-
E mi ritirai quindi nel dormitorio.
Ah, per chi fosse interessato, l’indiano andò in bianco nella maniera più crudele che si possa immaginare: una volta accompagnata Iris all’ingresso del suo hotel si vide sbattere la porta in faccia proprio quando stava per metter mani al portafogli, e ovviamene non per cercar soldi. Passò la mattinata seguente a lagnarsene.
Kathmandu, Lunedì 20 maggio
Il gusto perverso dell’autista nepalese nello schivare all’ultimo secondo qualsiasi cosa gli si ponga di fronte non lo capirò mai. Il fatiscente taxi che una volta doveva essere bianco (oppure giallo, ma sono sicuro che nemmeno l’autista se sarebbe ricordato nel caso glie l’avessi chiesto), si faceva strada in un caos di persone, carrozzoni, motorini e mucche.
Molte mucche in effetti.
Troppe mucche.
Ad ogni modo, al di là di ogni parola scritta potrete meglio comprendere ciò a cui mi riferisco semplicemente gettando dell’acqua su uno sciame di formiche: quello che vedrete vi darà un’idea di com’è trovarsi nelle strade di Kathmandu.
Lo sguardo di Laina era focalizzato sulla strada d’innanzi a noi al punto tale che credevo da un momento all’altro avrebbe aperto un buco sul tergicristalli, mentre Appy continuava a blaterare come di suo solito.
-Il film che voglio realizzare sarà sulla povertà dell’India, e per questo ho bisogno di perdere almeno altri dieci o quindici chili visto che oltre che regista sarò l’attore protagonista. Ho anche intenzione di passare qualche settimana in una baraccopoli, così da comprendere meglio quello di cui si sta parlando. Poi fatto il film diventerò un fottuto milionario-
-Progetto interessante e profondo- Replicai.
-Fai del sarcasmo fottutissimo italiano?-
-Oh buon dio no. Ci hai forse visto del sarcasmo anche tu Laina?-
-Appy di all’autista di andare più piano- Disse lei.
-Ma se stiamo andando a cinquanta kilometri orari!- Protestò lui.
-Diglielo e basta!-
Appy si sporse tra i due sedili anteriori e vociferò qualcosa al tassista, che sorrise di rimando scuotendo la testa. A quanto sembrava l’hindi era molto più popolare dell’inglese da quelle parti.
-Gli ho detto che lo trovi dannatamente sexy, soddisfatta?-
-Appy non sto scherzando!- Gridò lei.
Non riuscii a trattenere una risata.
-State buoni, siamo quasi arrivati. Magari dopo la tua dichiarazione riusciamo anche a ottenere uno sconto, chissà-
E per quanto possa suonare ridicolo, lo ottenemmo.
Di fronte all’aeroporto internazionale di Kathmandu, di cui ricordo soltanto la sensazione di trovarmi in una stazione d’autobus di periferia che mi dette, Appy fu il primo a immolarsi nel walzer dei saluti.
-Sei ancora in tempo, lascia stare la Tailandia e rimanitene qui con noi-
Non suonò come una battuta e sono sicuro non dovesse suonarci affatto, il suo sguardo del resto era intriso d’una tristezza che potrebbe apparire irrazionale se si pensa che si erano conosciuti soltanto il giorno prima.
-Sai che non posso- Rispose lei in tono quasi materno.
-Con il fottuto italiano viaggeremo in India per un mese e poi lui volerà in Tailandia, fai lo stesso no?-
Laina si prese alcuni secondi per rispondere, ma per quanto sono sicuro allettante le potesse esser sembrata la proposta non credo la stesse realmente valutando.
Semplicemente, gli stava dicendo addio.
-Parli sempre troppo, ma grazie di cuore, per tutto-
Poi si abbracciarono, e lo fecero a lungo. Arrivò quindi il mio turno.
-Mai stato bravo in questo, diciamoci semplicemente che ci vediamo laggiù tra un mesetto o poco più, ok?-
Sembrava difatti che i nostri piani avessero le adeguate tempistiche per permetterci di incontrarci in Cambogia o nel vicino Vietnam, ma considerando che giusto tre settimane prima ero convinto del fatto che in quello stesso momento mi sarei trovato in Kirghizistan pronto ad attraversare il confine cinese, non avrei scommesso un soldo bucato sulle mie stesse parole poiché sa dio dove avrei potuto essere da lì a un mese.
-Certamente, ci vedremo là- disse lei sorridendo.
Passai il palmo della mano sul ciuffo della sua coda particolarmente alta.
-Con i capelli messi così almeno puoi andare sicura che nessuno ti molesterà-
-Grazie per rendermi le cose più semplici, boludo!- Scherzò lei.
E ci abbracciammo quindi silenziosamente finché lei non se ne andò, lasciandoci entrambi, me e Appy, a guardarla allontanarsi con quel suo passo lungo e quel suo enorme zaino rosso che sembrava in ogni momento in procinto di sovrastarla.
-Mi mancherà, non puoi starmi così simpatica e poi andartene via- disse lui con voce spezzata.
Gli lanciai uno sguardo sorpreso: non lo facevo così emotivo.
Tentai dunque a mio modo di ravvivarlo.
-Mancherà anche a me, ma mai quanto mi mancherai tu. Credo che il tuo addio sarà come un peto: molto intenso per i primi cinque secondi e come non fosse mai esistito per quelli seguenti-
Gli strappai un accenno di sorriso, e credo che quello fosse il traguardo massimo raggiungibile in quella situazione.
Portai una mano sulla sua spalla e, allontanandomi, me lo tirai dietro.
A pensarci ora, è proprio la leggerezza con la quale affrontai quel commiato a rendere particolarmente ironico il fatto che la sua seconda parte, due mesi più tardi in Vietnam, mi scosse profondamente.
E il viaggio continua......
Per leggere la terza parte clicca qui.
Disclaimer: In questo post, alcuni dei link forniti sono link di affiliazione, il che significa che posso guadagnare una commissione se si effettua un acquisto attraverso questi collegamenti. Tuttavia, ciò non comporta nessun costo aggiuntivo per te. Le commissioni che ricevo attraverso questi link di affiliazione aiutano a finanziare e supportare il mio blog, mantenendo così la sua indipendenza e la mancanza di sponsorizzazioni. Mi sforzo sempre di fornirti le migliori informazioni e consigli possibili, basati sulla mia esperienza e ricerca personale. Mi preme sottolineare che il tuo sostegno è fondamentale per mantenere vivo questo blog e continuare a fornirti contenuti di qualità. Grazie per il tuo supporto!
Alcune immagini pubblicate sono state tratte da Internet, nel caso in cui, il loro utilizzo, violasse diritti d’autore, mandateci una mail a [email protected] e verranno immediatamente rimosse.