Matteo è in viaggio. Non si sa esattamente per quanto tempo ma la sua idea è di arrivare in Malesia partendo dall'Italia senza volare. Al momento si trova in Turchia e di questo splendido Paese ci racconta in un diario di viaggio appassionato e realistico.
Storie di viaggio, di strada, di zaini in spalla, di natura e cultura. Storie che si intrecciano con altre storie e danno vita a racconti che ispirano ed invitano ad osare....
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E’ un vento gelido e sferzante ad accogliere i miei primi passi sul suolo turco, un vento che aveva prepotentemente guidato le nubi nel celare l’unico riferimento familiare al quale il mio coraggio vorrebbe appellarsi in questo momento, la rassicurante luna.
La stazione di frontiera sembra un luogo al di fuori dello spazio e del tempo: le fioche luci provenienti dall’esterno vengono subissate dai fari puntati sui tre snelli percorsi d’incanalamento adibiti ai controlli, e le prominenti recinzioni ai lati del plesso altro non fanno che enfatizzare la sensazione di estraniazione dal resto del mondo. Inutile aggiungere che la notte, in questa situazione, non gioca certo a mio favore.
Tanto basta per far vacillare le mie certezze.
Mi ritrovo nel mezzo di una lunga coda generata dalla lentezza (poiché dubito si tratti di meticolosità) dei controllori doganali, che con le loro uniformi sgualcite e i lacci dei loro scarponi mal allacciati, sembrano soltanto una sbilenca imitazione dell’immagine formale ed autoritaria che ci si aspetterebbe di trovare.
Il sorriso che le mie italiche origini suscitano nel volto della guardia che controlla i miei documenti non viene recepito dalla mia mente come un piccolo segno di benvenuto, bensì di scherno, un beffardo promemoria di quanto ormai lontano si trova la mia realtà, ma ad ogni modo il timbro d’approvazione non tarda ad arrivare, ed ho quindi il permesso di dirigermi al piccolo market distante soltanto alcune decine di metri.
La struttura al suo interno è asettica e luminosa, regnata da un silenzio ovattato interrotto talvolta da qualche colpo di tosse e da qualche battuta di cassa.
Nessuno parla.
Perché dovrebbero del resto? L’obbiettivo comune è scappare da questo purgatorio burocratico il più presto possibile per potersi ricongiungere con propri affetti domestici o perlomeno alle proprie abitudini quotidiane.
E per quanto riguarda me?
Non esiste, almeno al momento, nessun porto cui poter attraccare, nessun luogo che abbia un minimo sentore familiare, ed io vago quindi solitario sulla mia zattera di fortuna in questo mare sconfinato, accresciuto momento dopo momento dalla mia attuale inadeguatezza a questo mondo totalmente nuovo ai miei occhi, mondo in cui il mio divano viene bruscamente tramutato in un sedile d’autobus ed il finestrino di quest’ultimo diventa di colpo la mia televisione, mondo in cui le passioni che fino ad allora avevano motivato i miei passi vengono eclissate da un crescente senso di smarrimento, mondo in cui la poesia si perde a favore di una realtà grigia ed impassibile.
Esco dal negozio a mani vuote, anche perché ammetto in tutta sincerità di non aver prestato la minima attenzione alla merce esposta, e decido di rientrare nell’autobus che sembra aver terminato le pratiche di controllo.
Trovo dunque il mio posto, la mia musica, ed anche più di quanto potessi sperare: un paio d’ore di sonno.
Da almeno dieci minuti sto lottando per tener sollevate le mie palpebre, e ben più arduo sarà alzarsi, poiché tralasciando il normale assopimento mattutino le mie gambe non solo devono ancora smaltire alcune fatiche arretrate, ma sembrano aver perfettamente compreso ciò che le aspetta.
Questo non è il giorno adatto al riposo.
Istanbul mi ha adottato, aprendomi gradualmente e dolcemente gli occhi su una realtà lontana ben oltre quello che la geografia mostra, e cullandomi inoltre con delle amicizie si brevi, ma d’una intensità tale che non credevo possibile.
Ankara mi ha cresciuto, facendomi muovere i primi passi in una fitta selva fatta di visti e documenti tanto intricata quanto, alle volte, irrazionale.
Ora, qui in Cappadocia, è tempo di trovare la vera essenza di questo viaggio.
Mi allaccio gli scarponi fissando il nulla, mi sciacquo il viso senza nemmeno guardarmi allo specchio, controllo lo zaino senza farlo davvero: La mia mente è altrove, ben al di fuori delle quattro mura di questo angusto appartamento.
La piccola cittadina di Urgup, che con le sue costruzioni in mattoni alternate a caverne rappresenta uno dei rarissimi esempi turchi di connubio tra storia e presente, attenta al mio tempo in modo piacevole ed allettante, ma i miei intenti sono ben più pratici, ed al fine di raccogliere qualche provvista mi dirigo verso una piccola drogheria, dove un uomo dal viso scavato ma bonario mi offre una tazza di tè che accetto volentieri.
La mia andatura è sostenuta, ed in una manciata di minuti mi ritrovo appena fuori il paese, su di una strada dissestata sulla quale motorini e macchine sfrecciano ad una velocità pressoché folle, impedendovi il transito pedonale.
Poco importa, quest’oggi la mia via non è fatta d’asfalto, ma piuttosto d’erba e terra, di fiumiciattoli e di nuda roccia.
Nell’esatto momento in cui il mio già malconcio scarpone marchia il soffice terriccio grigiastro, al pensiero che io e solamente io deciderò la direzione del prossimo passo la mia mente s’alleggerisce al punto da farmi quasi oscillare, e tutto risplende d’una nuova luce.
I levigati ammassi rocciosi si presentano ai miei occhi come le onde di un lenzuolo d’un letto sfatto, il vento frizzante che m’irrigidisce i peli delle braccia, oltre al lamentarsi sommessamente, porta con se un pulviscolo il cui sapore terroso s’insinua nella mia bocca, le piccole pietre presenti sul terreno rendono il tocco del mio piede discontinuo: una sensazione prossima alla felicità nasce nel mio petto, ma non si tratta di quel genere su cui poter fare affidamento costante, è piuttosto una promessa d’un benessere più profondo, un assaggio d’una gioia cruda e primitiva.
Un senzatetto, adagiato in un divano fatto di stracci in una delle sempre più numerose rientranze rocciose, come risposta al mio saluto m’invita ad avvicinarmi a lui e mi offre quanto di più prezioso ha da offrire: del pane. Qualche fallito tentativo di comunicazione, enormi sorrisi e sono di nuovo in cammino verso ovest, con l’anima molto più sazia del corpo.
Le ore mi scivolano tra le dita, e le gentili colline hanno ormai lasciato il posto a degli spogli pinnacoli i cui diametri variano dal tronco di un albero adulto a svariati metri, che all’imbrunire giocano a contendersi il sole disegnando sul terreno ombre che avanzano a passo d’uomo: è giunto il momento di trovare una sistemazione per la notte, e la scelta ricade su di una caverna leggermente sopraelevata rispetto alle altre presenti. L’improvvisato bivacco, con il soffice pavimento sabbioso modellato alle curve del mio corpo ed una temperatura ottimale garantita dalle spesse pareti, si dimostra confortevole al punto da farmi mancare lo spettacolo dell’alba, e questo sarà forse l’unico rimpianto che conserverò riguardo questo posto.
La marcia mattutina procede ad un buon ritmo, interrotta soltanto da una stramba conversazione gestuale con alcuni pastori locali visibilmente incuriositi dalla mia presenza nei loro pascoli, fin quando infine raggiungo la meta, l’ingresso alla valle di Hilara, un’enorme sbottonatura dell’arido paesaggio circostante su una realtà verde e rigogliosa.
Come prevedibile, l’intimità e la riservatezza di cui mi sono fino ad ora inebriato vengono scalzate dal brusio delle decine di turisti presenti, alcuni dei quali lanciano fugaci e taglienti sguardi ai miei abiti impolverati, giudicando silenziosamente.
Spiacente signori, quest’oggi sono io il più ricco qui.
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