Vietnam in moto (parte I) - Diario di viaggio

Aggiornato il: 1 Settembre 2014
Scritto da: Matteo Stocchi

Quando si viaggia per mesi, o per anni, il senso del viaggio muta e si trasforma.
Tu stesso cambi nell'approccio alla novità.
Il viaggio arriva a un punto di svolta, e diventa sopravvivenza, determinazione ad arrivare alla meta con i pochi mezzi a disposizione, attenzione a risparmiare un dollaro, quotidianità.
Ci si fionda così in un un mondo parallelo costellato da persone che man mano si fanno spazio nella tua avventura, quello che vedi e ti circonda inizia a passare in secondo piano.

Matteo partito mesi fa dall'Italia, lo abbiamo trovato in Turchia, oggi è in Vietnam.
Con tono romanzato a metà tra il diario di viaggio e il racconto, descrive alla perfezione uno stato d'animo veritiero, quello del viaggiatore a volte disilluso e stanco ma che continua ad andare avanti senza paura e con determinazione, in cui gli imprevisti sono vissuti per quello che sono, storie di ordinaria amministrazione che possono improvvisamente ribaltare un piano apparentemente ben determinato.

Il pittoresco villaggio ad inizio viaggio dopo mesi diventa l'ennesimo villaggio fatto di baracche e dove c'è poco da fare.
Le lingue diverse ed incomprensibili diventano ponti difficili da oltrepassare e ti lasceranno sempre con il dubbio di aver compreso correttamente. Compagni di viaggio casuali che sembrano avvicinarsi a personaggi al limite tra il reale e l'inventato.

Un diario di viaggio, appassionato e realistico, che non racconta di bellezze naturali o luoghi da vedere. Incarna invece l'animo del viaggio e del viaggiatore, dove nulla è certo ma tutto possibile.

I silenzi, le solitudini, i poliziotti, i monsoni, il fango e le notti insonni.

Un viaggio. Vero.

Giulia Raciti 

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Questo racconto è scritto da Matteo Stocchi attualmente in Vietnam.
Ci tengo a ringraziarlo per aver voluto condividere sul mio blog il suo racconto (che è lungo e sarà a puntate), non solo perchè lo reputo splendido ma perchè lo trovo pieno di significato e so che chiunque abbia viaggiato come me, lui, Valerio, Angelo o Pietro, può comprendere alla perfezione.
Quel punto di snodo in cui la tua vita si identifica con il viaggio e viceversa. Perchè tutto quello che fai, lo fai per andare avanti e proseguire un cammino che non ha una reale meta finale.

A fine racconto, i posts verranno accorpati e ne uscirà un ebook da poter scaricare. BUONA LETTURA!
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Saigon - Domenica 6 Luglio

-Vuoi dirmi quindi che non hai mai tentato un viaggio in moto?
-No-
Gli occhi color miele mi fissavano con un misto d’indifferenza e biasimo, mentre il sorriso sghembo preso in prestito dal protagonista d’una dozzinale pellicola d’oltreoceano non fece una piega.
-Sono più di millesettecento kilometri, sai?-
-Uhm, si-

Il caldo era opprimente, inesorabile, ed almeno esternamente inevitabile, dove anche il ripararsi all’ombra altro non era che un espediente assai futile, poiché in questo pezzo d’asia i colori ben più che sgargianti di tettoie, insegne, vetrine e quant’altro fungono da riflettori pressoché perfetti, permettendo all’implacabile sole di raggiungere ogni dove.

Anche a causa di ciò, l’insofferenza andava diventando un’avversaria sempre più ardua da fronteggiare.
-Hai almeno esperienza con una moto a marce?”
-No-

Niente da fare, nessuna delle mie risposte liquidatorie riusciva a porre fine a quella tacita paternale, resa ancor più goffa dall’alito pregno dell’alcool ingurgitato la sera prima.

-E con la meccanica? Hai esperienza con quella?-
-Figurarsi-

Delle parole gli morirono in gola prima d’esser pronunciate, e dopo una pausa lunga interminabili momenti, fu l’indifferenza a farla infine, finalmente, da padrona.

L’alto figuro biondo che rispondeva al nome di Daan distolse il suo sguardo da me e lo diresse sulla vicina motocicletta nera, afferrandone con naturalezza il manubrio e facendo scorrere le dita sul tasto d’avviamento. Arrivò in tutta risposta un rombo sordo ed intenso che fece emettere al ragazzo un esclamazione di stupore, ed a me invece immediatamente capire che ciò, evidentemente, prescindeva la normalità.

Il gioco di gomito di Daan applicato all’acceleratore epurò il boato della moto, che danzando sull’incerto cavalletto laterale sembrava ora fremere nel volersi guadagnare la strada. Per quanto ridicolo possa sembrare, ciò finiva a discapito della carrozzeria, che troppo logora per condividerne l’irruenza sembrava continuamente essere sul punto di dissaldarsi.

-Bene, tutto a posto, e mi sembra anche di averti avvisato sugli accorgimenti da adottare giusto?-

Accorgimenti che consistevano in: Cambio d’olio non ogni cinque o seicento chilometri ma bensì ogni trecento, che rappresentava inoltre il limite massimo che il buon senso avrebbe indicato di non testare, e un chirurgico dosaggio della frizione in ambienti urbani, poiché volendo citare “alla signora piace sculettare, e se la indisponi troppo si ferma”.

-Assolutamente si, credo sia tutto- risposi senza esitazione.
-Non sei un tipo di molte parole, vero?-
-Generalmente no in effetti-

Che si fosse trattato di semplice tensione camuffata da un fare scostante? Sarebbe estremamente comodo giustificarmi in tal modo, ma la verità è che con il passare dei mesi, battendo le vie di questo mondo senza una compagnia stabile al tuo fianco, si diventa inevitabilmente selettivi sotto molti aspetti: Attrazioni di tuo interesse, posti da frequentare e, per l’appunto, individui con cui interagire.

Dunque non per togliere nulla al caro Daan e alla sua sicuramente più che interessante persona, ma quella volta decisi di passare la mano.

moto vietnam

moto vietnam

Saigon - Lunedì 7 luglio

E’ ormai piuttosto frequente imbattersi in delle massime che spiegano, con eleganti quanto altisonanti parole, come basti semplicemente “concedere se stessi”, o anche “aprire i propri occhi”, per venire investiti da una miriade di emozioni nuove ed esaltanti, la cui intensità solcherà indelebilmente il nostro essere inducendoci ad essere individui d’una completezza totalmente differente.

Riferito almeno alla mia persona tutto ciò è vero solo in parte, poiché oltre all’ovvio prerequisito del dover adottare un atteggiamento propositivo, mi sono sempre trovato nella condizione del dover forzare un mio personalissimo blocco emotivo, nel lavorare più o meno duramente per rimuovere un fermo, che prendeva la banale forma della timidezza nel caso si trattasse del dover attaccar bottone con uno sconosciuto o, in questo caso, in un totale senso d’inadeguatezza nel dover battere centinaia di chilometri vietnamiti con un mezzo a me totalmente estraneo.

Anche la più ininfluente delle decisioni, come il decidere se fissare lo zaino al portapacchi in posizione orizzontale o se fargli seguire la linea della motocicletta per la sua lunghezza, o anche addirittura lo scegliere cosa mangiare per colazione, quella mattina aveva bisogno di una lunga ed ahimè il più delle volte inconcludente riflessione: la precedente era stata una nottata agitata, non riesco nemmeno a contare le volte in cui mi sono ritrovato a fissare, senza alcun motivo in particolare, lo spigolo del disastrato armadio presente nel dormitorio.

Partii infine con un misero frullato di mango nello stomaco, che altro non faceva se non aiutarlo a borbottare ancor più rumorosamente, e per quanto possa sembrare assurdo, non ho alcuna memoria di come posizionai lo zaino.

Ad essere onesti in effetti, questo non è affatto l’unico “cassetto vuoto” di quella mattinata.

Vorrei di fatti poter scrivere di qualche accattivante scorcio di quella lontana metropoli asiatica, di qualche buffo episodio inerente alla loro distorta concezione di scooter a due posti o di qualche profondo momento di contemplazione, ma la verità è che quelle prime decine di chilometri furono soltanto lo scattoso movimento del mio piede sinistro dedito al cambiare le marce, il frenetico roteare dei miei occhi mirato al carpire, se non addirittura nei casi più disperati a predire, le intenzioni di ogni singolo motociclista ed il quasi impossibile compito del riuscire ad orientarsi.

Perché no, non ero riuscito a trovare alcuna mappa stradale vietnamita, e volendoci inoltre accompagnare il fatto che il mio telefono non dispone di alcun servizio di localizzazione Gps, tutto ciò che avevo era un confuso ricordo della schermata di Google maps, risultato in seguito non inutile ma per giunta dannoso visto che quando per due volte ero convinto di dover svoltare a destra, la via corretta era quella di sinistra.

Reputo d’aver raggiunto il culmine della mia goffaggine in un distributore appena fuori città dove decisi che era giunto il momento di un pieno, decisione in cui anche l’idea di togliermi per qualche minuto da quell’enorme Tetris che qui prende il nome di strada ha avuto il suo peso.

La stazione era polverosa e confusionaria, come d’altronde tutto l’ambiente circostante, fatto semplicemente di grossi prefabbricati sprovvisti d’insegne e finestre, campi rossicci ed aridi votati al nulla ed agglomerati di lamiere arrugginite dove venivano svolti i più disparati mestieri, dal meccanico al dentista.

Ero impegnato ormai da una trentina di secondi nell’intento di inserire la marcia neutra che con ostinazione continuava a nascondersi giusto dietro la seconda quando, con la coda dell’occhio, vidi il benzinaio guardarmi con condiscendenza ed invitarmi a scendere. Ebbene lui montò in sella, con due leggeri tocchi inserì la folle, aprì il serbatoio per poi riempirlo di benzina ed infine mi riconsegnò il manubrio.

Beh, posso almeno dire d’aver regalato qualche sincera risata all’anziana donna che aspettava dietro di me il suo turno.

Matteo in Vietnam

Matteo in Vietnam

La giornata era ormai giunta alla sua metà, e così come le ore del mattino avevano lasciato il posto a quelle pomeridiane, anche il deprimente grigiume periferico di Saigon aveva ceduto il passo ad un verde che non assaporavo ormai da giorni.

La strada, di una linearità rasente quella di un filo stante a collegare due punti, poiché chiusa da entrambi i lati da una gentile e rilassata foresta pluviale conservava un’intimità capace di trasmettere un nonsoché di familiare, di domestico.

Inoltre, non soltanto il traffico ma anche la presenza umana si era ridotta al minimo, limitata a degli sporadici punti di ristoro ai lati della carreggiata costituiti semplicemente da una ghiacciaia e da svariate amache fissate a dei pali.

Il vento misto ad una pioggia quasi impercettibile scivolava nelle forme delle mie nocche lavandone via lo sporco della città.

La maglietta indossata, ancora parzialmente bagnata dal battesimo monsonico ricevuto qualche decina di minuti prima, svolazzava libera scoprendomi parzialmente la schiena.

Si, dopo una mattinata trascorsa a lottare con motorini, macchine, camion e soprattutto con me stesso, avevo mosso il primo passo, e non potevo certo prevedere che proprio quel piede stava per esser pestato.

Due uomini in divisa, i cui toni verdi rimandavano più alla figura d’un comandante d’esercito piuttosto che a quella di un semplice poliziotto della stradale, mi fecero cenno di accostare.

Il primo, dalla figura più minuta e rilassata, teneva la paletta d’ordinanza e mi fissava in modo grave, mentre l’altro se ne stava impettito con le mani incrociate dietro la schiena guardando vacuamente il nulla, ignorandomi quasi come fossi un cane randagio.

Ricevetti quello che penso di poter definire una ramanzina in piena regola, anche se vuoi per il parlato in vietnamita, vuoi per il fatto che non credo davvero di star andando a velocità poi così sostenuta, non posso esserne totalmente sicuro.

O meglio, non potevo.

Ad ogni modo, pensai, mamma Asia insegna che questo tipo di situazioni conducono tutte ad un inevitabile epilogo, e portai dunque la mia mano alla tasca posteriore dei pantaloni così da poter prendere il portafogli. Sentii che l’uno stava nel frattempo dicendo qualcosa all’altro, ma non vi prestai molta attenzione.

-Devo pagare una multa?-

Multa, mazzetta, pedaggio ufficioso o checchessia.

Un braccio teso orizzontalmente con il palmo della mano rivolto verso terra: ecco cosa ottenni come risposta dall’ometto di fronte a me.
I suoi occhi si erano fatti incalzanti e la bocca serrata, e ad intervalli regolari imponeva nuovamente il braccio come per ordinarmi di fare qualcosa.
Il problema era ovviamente capire cosa.

-Soldi? Volete dei soldi?-

Indicai più volte il portafogli ma non c’era niente da fare, per quanto incredibile potesse sembrare cercavano qualcos’altro.
Ebbi quindi l’istintiva idea di emulare la stessa posizione del braccio, anche se essendo un’azione totalmente priva di senso, temevo potesse risultare un atto di scherno.

Accadde quindi tutto in una frazione di secondo: Sostenendo ancora lo sguardo del piccolo uomo di fronte a me, non notai minimamente la bacchetta di canna, fino ad allora accuratamente celata dietro la schiena del secondo poliziotto, abbattersi violentemente sul dorso della mia mano aperta.

Nessun dolore (almeno nell’immediato). Nessuna parola. Rimasi semplicemente a fissare lo sguardo crudo del boia con un’espressione, ne sono certo, sbigottita ed incredula.

Fu infine proprio lui che m’indicò la strada davanti a me, invitandomi alla sua maniera ad andarmene. Almeno in quell’occasione la motocicletta si mostrò compassionevole accendendosi addirittura dallo starter, e me ne andai così a metà tra l’umiliato e l’indignato, non guardando nello specchietto.

Dannazione, non stavo affatto correndo.

Il buco nello stomaco avvertito fino a pochi minuti prima era stato sostituito da un crescente tumulto intestinale, e tutto grazie al bisogno impellente di risparmiare che l’aveva ancora una volta avuta vinta sul buon senso. Eppure ricordo chiaramente che il mio personalissimo campanello d’allarme contro il cibo scadente suonò quando vidi tagliare quell’anatra dallo strano color bordò, ma andiamo, stavamo parlando di un solo dollaro per un panino che avrebbe sfamato una famiglia, come dire di no?

Per mia fortuna comunque il dolore alla mano destra, ancora vivo e pulsante dopo all’incirca un’ora dalla crudele bacchettata, teneva piuttosto impegnato il mio cervello.

Mi trovavo nell’ennesima, e per quanto mi dispiaccia ammetterlo, scialba cittadina costruita a ridosso della strada, con costruzioni in muratura intonacate e non.

Seguivo involontariamente da qualche chilometro un tizio in giaccone verde militare in sella ad uno scooter rosso. Alla sinistra del mezzo, grossomodo allo stesso livello della marmitta, ondeggiava quella che sembrava la custodia d’uno strumento musicale, mentre due zaini erano accuratamente posizionati sul posto passeggero.

Al fine di rendere più chiaro il prosieguo della vicenda occorre ora precisare che in Vietnam i semafori sono leggermente diversi dai nostrani, poiché non si limitano al semplice verde giallo e rosso, ma mostrano inoltre i secondi rimanenti al prossimo cambio di luce. Trovandomi dunque a ridosso d’un incrocio e con ben cinque secondi di verde rimanenti non consideravo minimamente l’ipotesi di fermarmi, ma a quanto pare ciò era fin troppo azzardato per colui che mi precedeva, che decise per l’appunto di fermarsi.

Ora, non ho aperto il capitolo freni in precedenza, ma c’è davvero bisogno di spiegare che erano presenti pressoché per puro senso estetico?

Li pigiai entrambi con forza, l’anteriore ed il posteriore, in quello che metro dopo metro realizzai essere un disperato tentativo di non finire con l’investire il menestrello in giacca, ed alla fine riuscii con una rapida manovra elusiva sulla sinistra ad evitare il tamponamento, finendogli quindi di lato ad una distanza non maggiore di quindici centimetri.

Aprì la visiera mostrando degli appariscenti occhiali da vista neri ed uno sguardo gentile, seppur vagamente assente.

-Ciao-
Ed io che mi aspettavo una reazione polemica.
-Ciao, perdonami ma non ho ancora molta confidenza con questa moto, non volevo venirti addosso-
-Dovresti stare attento, è la prima volta che guidi in Vietnam?-

Il suo inglese era tutto fuorché fluente, ma non trovavo grosse difficoltà ad andare oltre il suo forte accento orientale e la sua peculiarità nello strascicare le vocali.

-Ad esser sinceri è la prima volta in assoluto su di una moto-
-Oh mio dio!- Esclamò divertito.
-Credo sia meglio spostarci di lato, il semaforo sta per tornare verde-

Una volta accostati ci togliemmo entrambi i rispettivi caschi e dei lunghi capelli neri gli caddero sulle spalle, anche se più di ogni altra cosa erano i suoi singolarissimi baffi ad incuriosirmi.

Una ventina, non dovevano essere più di una ventina di peli ispidi che gli contornavano gli angoli della bocca, puntando tutti verso terra.

-Il mio nome è Hau-
-Molto piacere, Matteo. Sei Vietnamita?-
-Si, sto andando a casa, e tu?-
-Italiano, sto andando ad Hanoi-

Esclamò qualcosa di incomprensibile e puntò il suo indice contro la mia motocicletta.

-Con quella?!-
Nessun “pizza, pasta, mafia”? Davvero curioso.
-Si, questo è il progetto, e sei pregato di non demotivarmi poiché non ce n’è alcun bisogno!-

Dovetti ripetere la frase per fargliela afferrare, poi infine rise. Rise di gusto, con la naturalezza di un bambino, battendo un pugno sul contachilometri del suo scooter. Mi ritrovai a sorridere.
-Stai andando a Da Lat?-

Risposi con un cenno della testa. Da Lat è una piccola cittadina nello striminzito entroterra vietnamita di cui tutti parlano un gran bene, nonché obbiettivo dichiarato della giornata.

-Bene, allora andiamo insieme-
-Ti seguo-

Hau Vietnam

Hau Vietnam

Quando arrivammo alle porte di Da Lat, nel tardo pomeriggio, ormai tutta l’adrenalina scaturita dall’idea del mio primo giorno di viaggio in moto si era esaurita, lasciando spazio ad una profonda spossatezza. Avevo inoltre trascorso le ultime due ore a saltellare sulla sella della motocicletta, talmente inadatta a viaggi a lungo raggio che aveva appiattito il mio fondoschiena al punto tale da poterlo confondere con la schiena stessa.

Il sole era stato oscurato ormai da un po’ da dense nubi pregne di pioggia, e non era certo questa la novità visti i tre improvvisi scrosci d’acqua ai quali avevo dovuto far fronte nel corso della giornata, quanto piuttosto un freddo che non credevo avrei sofferto qui.

Ci fermammo in prossimità di una casa alquanto sfarzosa fatta di legno e mura bianche, ed Hau si voltò verso di me.

-E’ un problema se prima di trovare un ostello passiamo da una persona che conosco?-

Ero fradicio al punto che la maglietta era ormai una seconda pelle, infreddolito da battere i molari e stanco tanto da rilassare i muscoli del polso e dare quindi gas ad intermittenza. Tutto ciò che avrei voluto fare era prendergli la testa tra le mani ed urlargli “si!” in faccia.

-No, figurati, ma preferirei non presentarmi in questo modo in casa d’altri-

Dopo alcuni attimi d’esitazione sembrò comprendere.

-Bene, aspetta qui un minuto allora-

Lo guardai accavallettare il suo scooter e quindi muovere i primi passi verso la costruzione. Notai che la sua statura non era poi così importante, ma sembrava comunque un tipo piuttosto robusto. Poi i miei occhi esigettero riposo e si chiusero.

Non riesco a dire quanto tempo impiegò nel tornare, so soltanto che mi ritrovai la sua faccia divertita ad un palmo dalla mia.

-Sveglia! Abbiamo un invito a cena per domani-
-Fantastico, possiamo andare allora?-
Spero abbia perdonato la deficienza d’entusiasmo.
-Si però anche tu dovrai cucinare, le ho detto che sei italiano-

Mi aspettavo una risatina ironica, un sorriso beffardo, o qualsiasi cosa che potesse lasciarmi intuire lo scherzo, ma tutto ciò che vidi fu una faccia piatta come un’asse da stiro.

-E perché questo dovrebbe presupp… Ok, nessun problema, farò tutto quello che vuoi, però andiamo ti prego-

Avrei dovuto avvertirlo che avremo dovuto aggiungere un posto a tavola, ma anche solo esistere era una tal fatica in quel preciso frangente, quindi mi ripromisi di informarlo a riguardo più tardi.

Da Lat - Martedì 8 luglio

Ben poche cose sono peggiori dell’alzarsi alle cinque e mezza del mattino, e tra quelle c’è sicuramente l’alzarsi alle cinque e mezza del mattino sapendo di dover indossare delle scarpe completamente fradicie.

Ebbi un sonno profondo e senza sogni, a quanto pare la stanchezza l’ebbe vinta su quello che era sicuramente uno dei materassi più rigidi che io abbia mai provato in vita mia. Non che mi potessi lagnare, del resto alloggiavo in un ostello che per la modica cifra di quattro dollari a notte assicurava un letto e la promessa di un’abbondante colazione, ed inoltre il dormitorio era completamente vuoto. Nel letto accanto al mio Hau aveva trovato il modo di utilizzare la propria coperta, oltre che nell’ovvia maniera tradizionale, come una specie di strano turbante che lasciava esposti solamente naso e bocca.

Ed i baffi ovviamente, come si potrebbe non soffermarsi su quei baffi.

Una volta uscito la morsa attanagliante del freddo mi costrinse a dei forzati secondi di contemplazione del nulla, anche se a posteriori devo riconoscere che non era niente di così terribile, ma credo il mio corpo fosse ormai troppo abituato al clima tropicale.

Il cielo era plumbeo, e così temevo sarebbe rimasto per tutto l’arco della giornata, ma perlomeno la pioggia sembrava averne avuto abbastanza.

Due, tre pedalate e la moto rispose tossendo ed annaspando, ma ingranata la prima sembrava essere in grado di andare.

Sembrava, per l’appunto.

A poco più di un chilometro di distanza la catena si spezzò, e dopo un doveroso calcione al parafango posteriore di quella trappola nero opaco, dovetti per forza di cose parcheggiarla davanti a quello che sembrava un ristorante o qualcosa di simile.

Ricapitolando: alzata alle cinque e mezza del mattino, scarpe pregne d’acqua e più di un chilometro di strada da farsi a piedi per tornare in ostello.

Nota positiva fu l’inaspettata gentilezza di Quy, giovane gestore dell’anche giovane ostello che senza alcuna esitazione mi prestò la sua moto. Mi domandai se tanta disponibilità derivasse semplicemente dalla sua persona o piuttosto dall’entusiasmo dell’aver aperto quella che doveva essere la sua prima attività, ma realizzai poi che era decisamente troppo presto per certi ragionamenti.

Essendo già in ritardo, mi guardai bene dall’avvertirlo che quella sarebbe stata la mia seconda volta su una moto a marce, ma fortunatamente non ci furono spiacevoli conseguenze alla mia inesperienza.

Arrivai alla stazione degli autobus senza staccare per un singolo istante gli occhi dalla strada, e questo sia perché ero pienamente consapevole che avrei avuto tutto il tempo di godermi la città, sia ovviamente perché quel mezzo non era mio.

Puntai dritto alla sala d’attesa, e giusto oltre la prima fila di seggiole vidi quel familiare ciuffo castano ergersi dritto e fiero.

-Non immagini nemmeno i problemi che mi hai causato- Dissi.

Lei si voltò, sorridendo.

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Scritto da Matteo Stocchi

Matteo è un Travel blogger e un viaggiatore.
Sta attualmente affrontando un viaggio in solitaria, che di solitario ha finora avuto ben poco, e su Viaggiare Low Cost raccontare esperienze che un giorno potrebbero anche essere tue.
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